Ha senso interrogarsi, ancora, sulla verità?
In che misura una pratica di una disciplina può supportare o meno questa ricerca?
Sul tema della verità l’essere umano ha investito tante risorse e molto si è detto. Basti pensare allo studio della filosofia ma anche delle varie scienze per avere un caleidoscopio di prospettive, ciascuna di esse in qualche modo attinenti a questo grande tema.
Queste poche righe intendono essere un piccolo contributo a supporto di un percorso di chiarezza che non può che essere personale.
E’ bene dunque iniziare dalla parola. Nella nostra cultura la verità è un termine che deriva direttamente dalla cultura latina. I Latini traducevano con veritas quello che i Greci esprimevano con aletheia (ἀλήθεια).
Tuttavia, mentre veritas deriva da una radice indoeuropea var-, che indica ciò in cui si crede, aletheia esprime il concetto di emersione di qualcosa che è nascosto.
Come accade a tutto ciò che parla all’essere umano -e dell’essere umano- attraverso i suoi elementi costitutivi, il concetto è immediato e contemporaneamente sfugge.
La veritas riguarda il fatto, che è credibile perché in qualche modo esperibile. L’aletheia riguarda la ragione.
Si sono fuse così, nel termine che ancora oggi adoperiamo, due radici che non sempre convergono.
La verità deriva dal saper pensare? Dal saper formalizzare secondo uno schema logico quanto ribolle in noi? Dal saper descrivere la realtà in cui viviamo secondo una griglia di categorie?
Oppure deriva esclusivamente dal credere? Deriva dalla semplice accettazione dei fatti?
La pratica di una disciplina offre gli umili e potenti strumenti per esercitarsi innanzitutto a riconoscere e distinguere, nel tema della verità, queste due enormi componenti tra loro non sempre bene in dialogo.
Questo succede ogni volta che la ragione ci fa comprendere qualcosa che però non riusciamo a replicare. Anche tornare a casa con un livido perché si “pensava” di non essere scoperti, è un fatto.
Si potrebbe dire che l’attaccamento ad un percorso, ad una disciplina, aiuta a sviluppare buone attitudini per dialogare a livello locale, puntuale, con la verità.
Ma soprattutto è interessante comprendere la modalità attraverso la quale questo processo avviene: l’incontro.
La verità si fa strada e si palesa attraverso l’incontro, in qualche modo sgorga da esso in modo spontaneo e apparentemente imprevedibile.
L’approccio solamente intellettuale ad una disciplina, al pari del suo duale, l’approccio esclusivamente tecnico, palesano i propri limiti nell’offrire cornici perfette quanto sterili. La tecnica, da sola, impoverisce. Le alte dissertazioni e le teorie sopraffini, alla lunga, si ripiegano su se stesse. In entrambi i casi, traiettorie che deperiscono nella naftalina delle élite.
L’imposizione di una tecnica, il continuo sabotaggio dell’altrui esecuzione, il rinnegare la dimensione fisica e marziale, il rifiuto ad uscire dal comodo guscio delle abitudini delle mura del Dojo, la facile etichettatura di altri stili come in fondo inferiori, la fissità su certe prospettive o la loro completa assenza… Anche in questo caso, nella sua semplicità, il percorso costante sul sentiero tracciato da una disciplina può essere di aiuto.
Può anche essere il catalizzatore per una totale fuga dalla verità. La spasmodica ricerca di conferme alle “nostre” verità, esattamente come quella coltivazione sistematica del dubbio che spesso nasconde la paura dell’incontro delle sue conseguenze sono atteggiamenti comuni, che riverberano anche nella pratica.
Il dramma della verità dunque risiede non nella sua esistenza, quanto piuttosto della sua completezza. Confinata nella ragione o nel fatto, diventa una gabbia in cui ci perdiamo. Paradossalmente, una verità immatura, una mezza verità, non conduce ad altro che ad un conflitto.
Riconosciuta nell’incontro, si apre a infinite possibilità, qualunque sia l’esito dell’incontro stesso.
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